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Trarre l'insegnamento sbagliato
MAX HASTINGS

MARGARET MacMILLAN, Dangerous Games: The Uses and Abuses of History, New York, Modern Library, pp. 188, $ 22,00

Le comunità promuovono lo studio del passato in quanto elemento dell'identità nazionale. Gli Stati Uniti lo fanno attraverso il National Historic Preservation Act del 1966. L'ordine esecutivo del 2003, "Preserve America", del presidente George W. Bush ha stabilito che «il governo federale riconosce e amministra i patrimoni storici in suo possesso come risorse che possono sostenere le missioni di dipartimenti e agenzie e al contempo contribuire alla vitalità e al benessere economico delle comunità della nazione, e promuovere una maggiore comprensione per l'evoluzione degli Stati Uniti e dei loro valori di base».

La parte più semplice di questo è aver cura – a esempio – dei campi di battaglia della guerra civile americana. Ogni visitatore straniero conviene che Gettysburg sia un sito storico d'importanza mondiale, al contrario di Waterloo in Belgio e dei luoghi delle guerre boere in Sudafrica, che si trovano in uno stato trascurato, principalmente perché i discendenti dei principali combattenti risiedono altrove. I britannici tutelano amorevolmente i loro castelli. Sono passati un numero sufficiente di secoli da quando le pietre sono state posate per smorzare la suscettibilità riguardo ai tetri scopi per cui gran parte di esse fu collocata.

L'interpretazione storica, tuttavia, offre epiche opportunità di sfruttamento e distorsione. Margaret MacMillan è un'accademica canadese, autrice di libri eccellenti sul Trattato di Versailles del 1919 e sul viaggio di Nixon in Cina del 1972. Ricorda l'ingenuità dei suoi ex studenti, che erano soliti dirle quanto fosse fortunata nella sua materia: «Una volta che hai capito bene un periodo o gli eventi di una guerra, cosí credevano, non devi più tornarci sopra. Dev'essere cosí bello, dicevano, non dover rifare gli appunti per le lezioni. Il passato, dopotutto, è il passato. Non si può cambiare. La storia, sembravano dire, non richiede più fatica che estrarre una pietra dal terreno».

Il tema di Dangerous Games, derivato da una serie di conferenze all'Università del Western Ontario nel 2007, è il modo in cui la storia è usata e abusata da parte delle comunità e dei loro leader. Viviamo nell'epoca della «mania della storia», dove i libri e i film sul passato affollano i negozi e gli schermi, con gran vantaggio di quelli tra noi che li scrivono. La ricerca degli antenati di famiglia è diventata una passione popolare alquanto narcisistica.

Ma alcune vistose follie politiche derivano dall'errata lettura della storia da parte dei leader nazionali. Qualsiasi politico che paragoni un moderno dittatore ad Adolf Hitler dovrebbe subire l'esautorazione automatica dal suo ufficio. A George W. Bush piaceva paragonare la sfida che affrontava da parte dei nemici dell'America a quella con cui Winston Churchill si era confrontato settant'anni fa. Il vicepresidente Dick Cheney una volta ha detto che il terrorismo globale rappresenta la minaccia più grave che la civiltà occidentale si sia mai trovata davanti. Tali affermazioni hanno rivelato la maestosa grandezza dell'ignoranza di entrambi.

I neconservatori di Washington dal 2001 in poi hanno esplicitamente accostato l'opportunità, e perfino il dovere, di conferire la democrazia all'Afghanistan e all'Iraq alla trasformazione politica di Germania e Giappone da parte degli alleati dopo il 1945. MacMillan indica che possono avere desunto «idee e ammonimenti istruttivi dall'esperienza britannica in quelle o in altre occupazioni». Su questo punto mi trovo in eccezionale disaccordo con lei. I tedeschi e i giapponesi del dopoguerra non hanno avuto niente da insegnare ai neo-con del XXI secolo, perché erano dei popoli sconfitti che reagivano all'occupazione con docilità e perfino soggezione.

Il vero insegnamento, se i repubblicani avessero citato il precedente in modo più astuto, si poteva trovare tra le popolazioni liberate nel 1944-1945. In Belgio, in Italia, nei Balcani e soprattutto in Grecia, gli alleati hanno affrontato dei problemi terrificanti nella riorganizzazione di società traumatizzate e radicalizzate dagli orrori della guerra e dell'occupazione nazista. Mentre i vinti possono essere, e ci si aspetta che siano, trattati con crudeltà arbitraria, ciò non vale per le società liberate. George W. Bush e i suoi colleghi hanno ripetutamente assicurato agli afghani e agli iracheni che sono stati liberati e non sconfitti. Quelle popolazioni si sono comportate di conseguenza, non da ultimo mostrando disincanto quando le promesse di miglioramento nelle loro vite sono state disattese. Washington della storia non ha letto i libri sbagliati, ma i capitoli sbagliati.

«La storia fornisce molto carburante per il nazionalismo», dice MacMillan. Ma ancora di più il nazionalismo rende il pubblico volutamente selettivo su quale storia preferire, e su questo scrive molto bene. La seconda guerra mondiale è popolarissima, specialmente negli USA e in Gran Bretagna, perché è percepita come l'ultima, incontestabile «guerra giusta». Molti occidentali ancora non vogliono riconoscere il fatto che gli alleati hanno contato sulla dittatura di Stalin per gran parte degli orripilanti spargimenti di sangue necessari ad abbattere quella di Hitler.

MacMillan cita il punto di vista dello storico britannico Michael Howard, secondo il quale il ruolo proprio degli storici è di sfidare e perfino far saltare i miti nazionali. Questi ha scritto: «Tale disillusione è una fase necessaria della maturazione a società adulta e dell'appartenenza a essa». Quasi tutti gli insegnanti e gli studenti seri lo riconoscono, ma il grande pubblico no. Spesso mi trovo in imbarazzo con patriottici lettori americani e britannici per aver affermato nei miei libri ciò che l'evidenza mostra chiaramente: che il soldato tedesco era nello scontro a uomo un combattente più abile della sua controparte alleata, escluse poche unità d'élite.

MacMillan descrive la spaventosa polemica esplosa in Canada nel 1992, dopo la messa in onda da parte della Canadian Broadcasting Corporation (CBC) di una serie di documentari, The Valour and the Horror, che ha sollevato domande sulla moralità e l'impatto dei bombardamenti strategici in tempo di guerra, cui avevano partecipato 20.000 aviatori canadesi, metà dei quali morti in battaglia. Un avvocato dei veterani che ha fatto causa alla CBC per danni ha dichiarato che la questione era semplicemente «su cosa è giusto e sbagliato; bene e male; bianco e nero; verità e falsità».

La stessa MacMillan è stata chiamata come testimone esperta dal Museo Canadese della Guerra, e ha affermato il corretto dovere di cronaca. «La storia», ha detto riecheggiando Michael Howard, «non dovrebbe essere scritta per fare sentire in pace la generazione presente, ma per ricordarci che le vicende umane sono complesse». Simili voci della ragione sono state coperte dalla massa. La Corte Suprema del Canada ha dichiarato la citazione dei veterani contraria alla procedura, ma la CBC si è piegata alla convinzione generale concedendo di non ritrasmettere la serie.

Una diatriba simile si è abbattuta nel 1994 sul Museo Nazionale dell'Aria e dello Spazio di Washington. I "patrioti" hanno sfogato la loro rabbia all'insinuazione da parte dello Smithsonian che la mostra sul B-29 Enola Gay, che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, poteva riaccendere la polemica etica sul suo uso. Il museo in seguito ha annullato la mostra e il suo direttore ha dato le dimissioni.

Il problema è che la stragrande maggioranza dei popoli di tutte le nazioni, anche delle democrazie liberali, si culla troppo nei propri miti nazionali per volere che crudi fatti, o perfino dichiarazioni di dubbi storici, li possano macchiare. Preferiscono una visione infantile del loro passato a una adulta, e uno stuolo di autori e produttori televisivi è contento di assecondarli.

Gli americani cullano l'illusione di non essere semplicemente una società non-imperiale, ma vigorosamente antimperiale. Dubito che libri come quello recente di David Reynolds, America, Empire of Liberty, che descrive la colonizzazione del continente nordamericano a spese delle popolazioni indigene, farà molto per far cambiare loro idea. Il modo di vedere il XIX secolo di molti bianchi del sud rimane influenzato in maniera più vigorosa da Via col vento che da oggettivi ritratti delle miserie nella società delle piantagioni.

La Cina si aggrappa alla credenza che Mao Zedong sia stato il padre della sua libertà e vieta il pubblico dibattito sugli orrori della rivoluzione culturale degli anni '60. Un accademico cinese mi ha raccontato non molto tempo fa che 50 milioni di cinesi sono morti durante l'occupazione del paese da parte dei giapponesi, e non 15 milioni come finora ritenuto. Ho chiesto delle prove di queste statistiche e come risposta ho avuto uno sguardo vuoto. Il nuovo e incontrollato calcolo è solo un segno della profondità dell'acrimonia cinese verso il Giappone, piuttosto che un'applicazione di rigore intellettuale, ancora largamente assente dagli studi storici cinesi.

Il rifiuto del Giappone di affrontare in modo convincente il suo passato nella seconda guerra mondiale è ben noto. Ma dovrebbe destare meraviglia che, ancora nel 2008, il comandante in carica dell'aviazione giapponese sia stato costretto a dimettersi dopo aver pubblicato uno studio in cui sosteneva che le operazioni di guerra del suo paese in Cina hanno rappresentato qualcosa di simile a un atto di filantropia. Le opinioni di molti israeliani riguardo alla fondazione del loro stato racchiudono dolorosi malintesi su quanto è stato fatto ai palestinesi nel 1948.

MacMillan descrive la veemenza con cui i nazionalisti indù, alcuni dei quali al governo, cercano di propugnare una visione del passato dell'India che non ha alcun legame con la realtà, specialmente nella trattazione del contributo dei musulmani alla storia indiana. Murli Manohar Joshi, ministro dell'educazione indiano dal 1998 al 2004, ha introdotto nuovi testi scolastici di tono apertamente nazionalistico che perpetuavano gravi falsità storiche. Va a credito della democrazia indiana che la tentata sostituzione da parte di Joshi dello storico dell'India antica all'interno del Consiglio per la Ricerca Storica con uno nominato da lui sia stata sconfitta da una pubblica protesta. Si è ritenuto che gli attacchi del candidato a cristiani e musulmani fossero andati troppo in là.

Vladimir Putin cerca di riscrivere la storia della Russia moderna per riabilitare Stalin. La versione degli eventi del XX secolo fornita negli odierni libri di testo russi sarebbe irriconoscibile per la maggior parte degli storici occidentali. MacMillan nota come i mass media russi stiano rivedendo oggi il massacro di Katyn del 1940, riaffermando la colpa dei nazisti per l'uccisione di circa 30.000 tra ufficiali e intellettuali polacchi nonostante la schiacciante evidenza della responsabilità sovietica.

Gli inglesi possiedono il loro ricco repertorio di leggende, tra cui la più tenace è che la maggior parte dei sudditi coloniali del loro impero apprezzasse i benefici della dominazione straniera. Gli ammiratori di quell'appassionante film che è Zulu (1964) non vogliono sentirsi dire che dopo la battaglia al Rorke's Drift del 1879, che la pellicola rappresenta, i difensori britannici hanno fatto fuori gli zulu feriti. C'è poca brama popolare di conoscere la carestia del 1943 in Bengala, che ha causato tre milioni di morti, in parte perché Winston Churchill stesso si è rifiutato d'interessarsi al loro destino. Gli storici britannici hanno pubblicato in anni recenti molti libri che cercano di riequilibrare la nostra visione della seconda guerra mondiale per dare il giusto rilievo al Fronte orientale. Ma il pubblico preferisce categoricamente una visione anglocentrica.

Si può obiettare che niente di tutto questo importa molto, a patto che non si consenta alle romantiche immagini nazionalistiche del passato di influenzare le politiche di governo del XXI secolo. Ma questa condizione spesso non è soddisfatta. Pochi politici moderni leggono più di due o tre libri seri l'anno ed è una questione di fortuna se capita che questi diano dei consigli utili. MacMillan fa notare che la misurata risposta di John F. Kennedy alla crisi missilistica di Cuba del 1962 è stata influenzata dal fatto che questi aveva da poco studiato I cannoni d'agosto di Barbara Tuchman, in cui si sostiene che incidenti e incomprensioni abbiano accelerato la guerra nel 1914.

Per contro, un anno e mezzo fa ero rimasto sconcertato nell'apprendere da un articolo scandalistico che il vicepresidente Dick Cheney era stato visto leggere una copia del mio libro Retribution: The Battle for Japan 1944-1945 (2008), dove sostengo che il bombardamento di Hiroshima era spiegabile, se non giustificabile in retrospettiva, in base alle circostanze e alla mentalità del tempo. La mia immaginazione era turbata dagli usi impropri che il vicepresidente avrebbe potuto fare dei precedenti storici del 1945.

Il creatore vittoriano del britannico Dictionary of National Biography, Leslie Stephen, ha osservato: «Nessuna bella storia è completamente vera». MacMillan rimarca che non esiste nessuna prova a fondamento della storiella del cartello all'entrata delle vecchie concessioni europee a Shanghai: «Divieto d'ingresso a cani e cinesi». Poteva aggiungere che i grandi detti attribuiti ai grandi uomini sono spesso di dubbia plausibilità. Dopo la conquista di Sindh nel 1843, il generale britannico Charles Napier non ha trasmesso il trionfale messaggio «Peccavi» (I have sinned, ossia I have Sindh), come molti romantici cronisti hanno riportato. Non c'è ragione di credere che Pershing abbia davvero detto al suo arrivo in Francia nel 1917: «Lafayette, siamo qui».

MacMillan dedica ampio spazio al moderno culto della storia orale. Molti storici accademici respingono le testimonianze orali con disprezzo, ed è facile capire perché. Prendiamo a esempio i libri d'interviste di grande successo di Studs Terkel, tra cui spicca The Good War (1997), sulla cosiddetta «generazione più grande». Molte affermazioni fatte in esso dagli intervistati non sono giustificate dai fatti.

Questo è vero per la maggior parte delle opere del genere. I loro compilatori e curatori evitano di guastare la vivezza dei racconti dei testimoni oculari segnalandone gli errori. Milioni di persone, e quasi tutti i produttori televisivi e radiofonici, vedono un pregio intrinseco nelle attestazioni di testimoni oculari contemporanei, senza curarsi se ciò che dicono è o può essere oggettivamente fondato.

Ho intervistato centinaia di veterani della seconda guerra mondiale in tutto il mondo, e fatto largo uso delle loro parole nei miei libri. Non sono d'accordo con gli accademici che dichiarano che queste sono senza valore. Contribuiscono a un senso del clima, del tempo e del luogo che può dare un contributo importante alla rappresentazione di come le cose sono apparse ai protagonisti contemporanei. Ma mi sforzo di escludere le testimonianze in odore di falsità, e non mi baserei mai sulle memorie di uomini e donne anziani per sostanziare qualsiasi affermazione fattuale importante.

Come osserva MacMillan, la memoria umana è brutalmente selettiva. Col passare degli anni, la maggior parte di noi inizia sinceramente a credere nella realtà di cose che pensa di avere visto e comincia a confondere la cronologia. Quando rivedo persone che ho incontrato sui campi di battaglia decine di anni fa, quando ero corrispondente di guerra, sono colpito da quanto spesso correggano dei miei ricordi sbagliati, di cui ero diventato tacitamente sicuro.

Al di là delle pecche della memoria, è falso credere che ci si possa fidare di chi era presente per sapere cosa sia successo. MacMillan sottolinea la sconsideratezza di dare per scontato, per esempio, che chi ha partecipato ai bombardamenti in Germania e Giappone possieda delle credenziali prioritarie per formulare un giudizio sul merito, come si è ritenuto nei dibattiti degli anni '90 a Ottawa e Washington.

Le guerre sono condotte in parte da ufficiali esperti, che prendono le decisioni e prevedibilmente cercano in seguito di influenzare il giudizio storico su di loro, specialmente se continuano ad avere alte cariche e a esercitare un qualche potere sulla documentazione contemporanea e sull'uso che ne è fatto. Gli altri, decisamente più numerosi, partecipanti ai conflitti sono uomini e donne molto giovani, in gran parte immaturi e ignoranti di tutto ciò che va al di là dei loro mirini. Non sono qualificati per offrire opinioni utili sul grande quadro degli eventi in cui hanno giocato piccoli ruoli. Nella mia esperienza, è inutile invitare chi ha ricoperto ruoli minori a pontificare in materie che vanno oltre la loro sfera ristretta.

La virtù intrinseca della testimonianza orale è stata molto esagerata nell'immaginario collettivo. Queste prove hanno un ruolo utile da giocare, allestendo la scena nelle rappresentazioni di eventi storici recenti. Ma le voci dei partecipanti devono essere debitamente contestualizzate con documenti e registrazioni contemporanee ? sebbene anche queste debbano essere maneggiate con cautela.

Alcuni storici accademici riversano una fiducia quasi religiosa nella santità della prova scritta. Lo scienziato Solly Zuckerman, che ha avuto un ruolo di primo piano nei consigli di guerra inglesi, mi ha raccontato che da vecchio era riandato a leggersi al British National Archive le minute delle riunioni cui aveva partecipato, per rinfrescarsi la memoria mentre stava scrivendo la sua autobiografia. Questo esercizio gli aveva fatto concludere che gli scritti riflettevano soltanto i pregiudizi e le convinzioni personali di coloro che li avevano redatti, e non un racconto affidabile di cosa era stato detto. Non ho mai visto nessun diario di guerra reggimentale statunitense o britannico ammettere esplicitamente che i soldati sono fuggiti nel panico, come naturalmente a volte fanno.

MacMillan preme affinché l'esigenza principale nell'esplorazione della storia sia il senso di umiltà. Cita lo scrittore britannico John Carey: «Uno dei compiti più utili della storia è di farci capire quanto intensamente, onestamente e dolorosamente le generazioni passate abbiano inseguito degli obiettivi che ora ci sembrano sbagliati o vergognosi».

Nei romanzi di Patrick O'Brien sulla flotta di Nelson, la panacea dell'affascinante e scaltro medico Stephen Maturin, per ogni male che non avesse altra cura possibile, era il salasso della persona. Per secoli, nella vita come nella finzione, anche i dottori più brillanti di prassi cavavano il sangue dai loro pazienti. Le loro intenzioni erano buone. Si sbagliavano completamente, ma non conoscevano di meglio. Cosí è con i leader politici. Relativamente pochi, specialmente nelle democrazie liberali, commettono deliberatamente cattive azioni. Ma le conseguenze delle loro azioni, nei tempi moderni in posti come Suez, l'Algeria, il Vietnam o l'Iraq, sono spesso state cattive. Non è infrequente che questa sia stata la conseguenza di aver letto i brani sbagliati della storia.

«La storia ci può aiutare a essere prudenti», scrive MacMillan.

«Può anche suggerirci quale può essere il probabile risultato delle nostre azioni. Non ci sono schemi chiari … che ci aiutino a dare al futuro la forma che desideriamo. Ogni evento storico è una congerie unica di fattori, persone o cronologia. Eppure esaminando il passato possiamo apprendere alcune lezioni utili su come procedere.»

John Lewis Gaddis allo stesso modo indica che studiare la storia è come guardare in uno specchietto retrovisore: come dice MacMillan, «se guardi solo indietro, cascherai nel fosso, ma è d'aiuto conoscere da dove sei venuto e chi altri c'è per la strada».

Il peggior errore spesso compiuto dai leader nazionali, dice MacMillan, è di scegliere qua e là prove storiche al fine di giustificare corsi d'azione in cui sono già coinvolti. George W. Bush era particolarmente incline a questo. Ogni tanto invitava degli storici alla Casa Bianca per condividere la loro opinione, ma la scelta degli ospiti era dettata dalla loro forma mentis politica. Non esiste prova che il presidente abbia mai deviato dal corso cui era incline prestando orecchio a simili interlocutori.

MacMillan ha in serbo qualche parola giustamente scortese per gli storici professionisti che in tempi recenti hanno fatto dell'oscurantismo una virtù. Uno di questi, Andrew Colin Gow dell'Università dell'Alberta, dice severo che non dovremmo aspettarci che gli storici ci raccontino una bella storia: «C'è bisogno di storici professionisti che ci facciano divertire ? specialmente quando col denaro pubblico si paga cosí tanto di quello che facciamo? C'è bisogno di fisici che ci intrattengano?».

D'accordo con MacMillan, sono colpito dalla bassa qualità letteraria dei lavori prodotti da molti accademici, spesso pubblicati da case editrici universitarie. Potrebbero anche essere scritti in cinese per quanto sono intelligibili a un pubblico inesperto. La conseguenza, dice MacMillan, è che sono i dilettanti – tra cui presumibilmente vorrebbe includere me, giacché non possiedo credenziali accademiche e non ho alcun posto di ruolo – a entrare sempre di più nei dettagli. Auspica che i professionisti facciano uno sforzo per riguadagnare il terreno perso riconoscendo la responsabilità di raccontare una storia in modo vivo, oltre che per sostenere la causa dell'integrità intellettuale.

I saggi di MacMillan non offrono nessuna innovazione significativa. Mancano abbastanza di coerenza e continuità per la loro evidente derivazione da lezioni tenute a un pubblico di studenti. Ma affermano alcune utili verità che necessitano riformulazione, poiché la storia viene troppo spesso abusata. Poteva dire di più sulla percezione popolare della prima guerra mondiale. Quell'evento alimenta una mitologia culturale che tiene testa a ogni sforzo da parte degli accademici, Michael Howard e Hew Stachan i più importanti tra questi, per promuovere prospettiva e oggettività.

Gran parte dei popoli del mondo occidentale si aggrappa caparbiamente a una credenza sull'inutilità del conflitto, incurante dell'evidenza che una vittoria degli Imperi Centrali sarebbe stata una catastrofe per la libertà europea. La credenza popolare predominante per cui la prima guerra mondiale è stata combattuta per una "cattiva" causa, mentre gli alleati in quella successiva ne hanno perseguita una "buona", enfatizza il fatto che, vivendo in un mondo sovraccarico d'informazione, la saggezza e l'equilibrio – specialmente nella scelta di mali relativi come sono molte decisioni di stato – rimangono costantemente sfuggenti.

Il libro di MacMillan mostra perché i governi dovrebbero rimanere fuori dal business della storia, sebbene naturalmente non lo facciano mai. I regimi totalitari, in special modo, cercheranno sempre di sfruttare frammenti scelti dei loro passati nazionali per giustificare rivendicazioni territoriali e promuovere finalità vanagloriose. Per quel che riguarda le democrazie, MacMillan è intelligente e misurata nella sua discussione a proposito della voga corrente delle scuse formali: agli aborigeni australiani e ai maori, agli schiavi, alle donne, agli irlandesi e alle altre vittime delle persecuzioni.

Dovrebbe essere giusto, dice, riconoscere i gravi peccati dei nostri antenati. Ma è follia supporre che possiamo retrospettivamente imporre i valori del XXI secolo a decisioni ed errori che sono stati fatti in circostanze molto diverse del passato. L'essenza dello studio e dell'uso della storia è riconoscere l'ineludibile variabilità dell'approccio di ogni generazione: «La storia non produce risposte definitive per ogni tempo. È un processo». Possiamo stare sicuri che i nostri figli e nipoti percepiranno il passato in modo diverso da noi, anche se non c'è ragione per supporre che la loro versione avrà una validità più assoluta della nostra.

(Traduzione di Giordano Vintaloro)


MAX HASTINGS, giornalista e storico inglese, è stato direttore del Daily Telegraph. Scrive per The Guardian e The New York Review of Books ed è noto al lettore italiano come autore di: La Guerra di Corea, 1950-1953 (Rizzoli, 1990); e Apocalisse tedesca. La battaglia finale, 1944-1945 (Mondadori, 2006). Il suo ultimo libro è Nemesis: The Battle for Japan, 1944-1945 (HarperPress, 2007).

 
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