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La clessidra di sangue
ALESSANDRO FO

ALFONSO TRAINA, Versi del mattino e della sera, premessa di Giorgio Bernardi Perini, introd. di Antonio La Penna, Mantova, Tre Lune Edizioni, pp. 365, €25,00

ID., Pura sub nocte, introd. di Giorgio Bernardi Perini, Mantova, Tre Lune Edizioni, pp. 264, €24,00

Durante i molti anni di una vita trascorsa ad ascoltare con amore e finezza i poeti, soprattutto latini (e neolatini), Alfonso Traina, uno dei nostri più prestigiosi antichisti, ha via via coltivato, in umbratile e defilata modestia, una personale poesia, che è fiorita in due serie di testi – una nella sua lingua madre, e una nella madre della madre: il latino –, affidate sporadicamente a plaquettes a limitatissima tiratura, destinate a una piccola rosa di amici. Di recente, proprio gli amici, e in particolare un altro insigne latinista come Giorgio Bernardi Perini, hanno convinto Traina a raccogliere questi frammenti dispersi, e lo hanno persuaso a pubblicare dapprima un'antologia d'autore dei versi italiani (Versi del mattino e della sera, 2008: = V), e quindi, ora fresca di stampa, la sua gemella sul fronte latino (senza traduzioni di sussidio, se non per una breve sezione iniziale: Pura sub nocte, 2010: = P).

Va innanzitutto sottolineato quanto richiamano entrambi i prefatori, Antonio La Penna per il primo, e Giorgio Bernardi Perini per il secondo libro: con le parole di quest'ultimo (P IX), «il bilinguismo offre al poeta le variabili indipendenti, per cosí dire, di un sostanziale monolinguismo poetico». Si divaricano le forme, in relazione al mezzo di volta in volta adibito, ma l'universo tematico e tonale di riferimento resta costante, in una sua compatta coerenza. Traina predilige la misura breve, il concetto nitido e talora affilato in forma di pointe, l'"improvviso" penetrante (e sovente amaro), che scava una nicchia di osservazione inedita e profondamente "marcata" nel caotico e vario complesso della vita. Muovo da un esempio concreto, la poesia Il barbone (V 240): «Fosti anche tu bambino,/ anche tu sorridevi/ al sorriso materno,/ anche tu protendevi/ tenere mani ad afferrare il mondo./ Che non ti veda tremulo/ gomitolo di cenci,/ da dove è solo pace,/ tua madre». Una presenza "minore", solitamente trascurata nell'arco dei giorni, veicola un fascio di riflessioni e di motivi centrali nella poesia di Traina. Innanzitutto lo scandalo e mistero del dolore, tanto ineluttabilmente consustanziale all'esistenza, da produrre, in un monostico latino, la tagliente sentenza che riversa sul soffrire, e non sul pensare, la prova dell'«essere»: Cogito, ergo sum: verene? Verius doleo, ergo sum (P 172). «Infiniti millenni di dolore/ nel quotidiano strazio della vita/ è l'occulta entropia che mina il cosmo» (V 134, ma anche 88, 89, 95, 96, 137; e P 99, 145). Ne partecipano forse anche le piante, e in questo caso «tutta la natura/ è un solo muto grido di dolore?» (V 147). Implicitamente, Il barbone comporta il lamento sulla carenza di solidarietà, sulla natura belluina dell'uomo: un filo tematico che produce, in ambedue le lingue, un'ampia gamma di sarcasmi e denunce della fera sapiens (P 86, ma anche 48, 69, 142-44, 237, 249; e V 170, 276, 277).

Su questi nodi si innestano – pur se in questa lirica appena accennate – altre "invarianti" della poesia di Traina. Per esempio, la proiezione verso l'affetto dei cari che ci hanno un tempo accudito e consolato e ora sono di là dalla soglia, e in particolare la figura della madre («Mamma, parola che mai più dirò»: V 109; e 167, P 203). O ancora la tenerezza nei riguardi dell'infanzia, tanto più se la sua esposta fragilità e innocenza si fa teatro dei trionfi del dolore (V 241, 276). Non si dovrebbe augurare a chi muore sit tibi terra levis, bensí a chi nasce sit tibi vita levis (P 99). Lo sguardo che si posa sul barbone è quello, di matrice virgiliana, di una commossa compartecipazione, un Mitleid fraterno che commisera le sventure che ci accomunano (me cunctorum miseret doletque animantum: P 97; cfr. Buddha: V 179). E, caratteristicamente, questo nuovo e poetico sguardo sulla condizione-simbolo del barbone, che chiama in evidenza la sua infanzia, attraverso l'anafora «anche tu» si innesta sí sulla storia di tutti, ma va a coglierne il tratto universale in un grande archetipo classico: lo scambio di sorrisi fra la madre e il suo neonato nella chiusa della quarta bucolica di Virgilio. «Anche tu»: come ciascuno di noi, e come quel leggendario puer (che avrebbe dovuto schiudere una mai subentrata nuova età dell'oro).

Il sostrato "ferito" della poesia di Traina pone in spiccato rilievo, con martellante insistenza, alcuni punti "dolenti" della nostra avventura. Innanzitutto il senso della precarietà del tutto, esposto all'inesorabile insulto del tempo (V 22; 271: «mi corrode il tempo/ come una lebbra/ invisibile»). «Labile nastro di parvenze è il mondo», come un paesaggio da un treno (V 32; cfr. 101). E la nostra frustrata aspirazione a una persistenza durevole trova una sua icona nella pietra, masso sui monti o sasso in fondo a un torrente (V 94; cfr. 219). «Restare solo una pietrificata/ felicità di riscaldarsi al sole» (V 183): «Io so perché vi amo,/ gioielli della terra,/ […] irrigidite iridescenze, […] voi che sarete quando non sarò,/ voi dove il tempo è fuoco raggelato,/ pietre» (V 145). Come già cantarono Catullo e Orazio, mentre il ciclo della natura continuamente si ripropone, il nostro viaggio di individui è lineare e punta verso la dissoluzione: «Risorgerà. La Vita, non le vite» (V 226). Ne consegue, in ambedue i libri di Traina, una forte presenza della morte e dello sgomento di fronte al suo varco: «solo nell'uomo l'universo apprende/ la propria morte./ Sono una clessidra/ di sangue» (V 39; cfr. 54, 91,140; P 66, 159: con l'auspicio che, quando sarà, la morte sopraggiunga non carptim, ma raptim). «Di una vita che resta? appena un graffio/ del tempo a fiore di una pietra» (V 64). Ma meglio allora il «sepolcro/ d'aria e di luce» procurato dalla cremazione (V 252), sebbene la cosa di gran lunga migliore sarebbe stata, con l'amato Pascoli, «non esser mai» (V 156).

Tutto ciò interroga vibratamente il presunto responsabile ultimo: Dio. Ma Egli, seppure esiste, è misteriosa inarrivabilità (V 62), è «l'Assenza scavata nel mio essere» (V 151). «Il silenzio è il notturno/ volto dell'Uno» (V 42). Cosí la ricerca, per quanto assillante, resta frustrata, e nessun atto d'amore riesce a maturare su queste insondabili distanze (V 189). La conclusione è Aut nullus Deus est, aut Deus ipse dolor (o Dio non c'è, o è egli stesso dolore: P 71). «Ma Tu perdonerai/ chi non ha perdonato il Tuo silenzio,/ oblioso che il silenzio è la Tua voce?» (V 243). Il poeta resta solo, senza risposte, di fronte alla maestosa e sgomentante immensità del cosmo (V 178, 246, 350; P 220).

In un contesto speculativo tanto desolato, come afferrarsi alla vita? A consentirci di sopravvivere resta sostanzialmente la bellezza, che interviene in forma di meraviglie naturali, nella rapina di preziosi istanti di pace e di gioia, nelle modalità dell'amore, e nella consolazione delle letture e del canto.

Per quanto nelle misure brevi proprie a questa poesia, gli spettacoli della natura sono oggetto di una contemplazione fastosamente pittorica. Con sottile attenzione alle epifanie del creato, Traina ritrae lo «splendore dell'effimero» in un albero autunnale, nella luce al tramonto, nelle flessuose sembianze di un gatto, nell'«impietrata vertigine del tempo» che si traduce in «vette violacee» e «bianco gregge/ di massi sparsi per l'arido verde» (V 45, 37, 18, 30, 128): cor stupet attonitum repetens primordia mundi (P 68; anche 81, 67, 77). «Là è la pace/ di un giorno» (V 185): come in una galleria di quadri, il poeta ferma «lo splendore dell'attimo fuggente», la «grazia dell'attimo fuggente», la «leggera» e «fuggente navicella» del momento di felicità (V 86, 171, 149), contrassegnati da quella che è per lui una della principali categorie positive della vita, la «levità» (V 50; cfr. 44, 267, 334). «Godi la breve/ ansa del tempo» (V 268): il taglio del monito è naturalmente quello di Orazio, altro poeta prediletto, cui Traina – in una delle poesie dedicate in ambo le lingue a lui e a Virgilio e altri amati antichi – fa dire carpsi rite diem, ne carpere cura futuri/ me posset («ho colto l'oggi giorno per giorno, perché non fossi colto dall'ansia del domani»: P 24 s.). Ancora sulle note del suo celebre carpe diem, Traina rimodula una delle proprie esecrazioni della vecchiaia – se il poeta esorta a "spizzicare" il giorno, è piuttosto il tempo a "spizzicare" giorno per giorno lui: Carpe diem, monet poeta: carpit immo me dies (P 218).

Fra i momenti alti strappati allo spietato meccanismo di erosione e dolore dell'esistenza, brillano quelli donati dall'amore, «suprema sfida della vita al tempo» (V 93; cfr. 31, 36, 44, 269, 303 s., P 201). Traina gli dedica un breve inno – Sero te cognovi (V 56) – che per via allusiva ne sottolinea la natura divina, ricollegandosi al celebre sero te amavi delle Confessiones di Sant'Agostino (X 27, 38).

L'allusività, in uno studioso cosí dotto e cosí fine interprete di poeti dotti, non poteva che aprirsi come strada maestra per la poesia in proprio. Impossibile rubricarne qui i molti episodi, e del resto anche in queste poche campionature abbiamo già avuto occasione di registrarne l'intensa operatività. Talora accade che nelle poesie latine il gesto allusivo si incroci con quello della traduzione: una lirica sulla primavera evoca quel febbrile senso di rifioritura personale che Catullo ha reso celebre nel suo carme 46; ma l'incipit versa nella lingua di Catullo l'incipit di Gli aquiloni di Pascoli: Est quaedam novitas eademque antiqua per auras (P 91). E, a proposito di traduzioni, non si può trascurare quella della celebre È subito sera di Quasimodo: Omnis homo solus terrae stat culmine, solis/ transfixus radio, nec mora, Vesper adest (P 128).

Siamo cosí insensibilmente entrati nel dominio della gioia dei libri, purtroppo intaccata, ora che il poeta è anziano, dal venire meno della vista. «Disperante salvezza, poesia,/ solo il tuo lampo ricompone il mondo/ specchio di un dio» (V 9; e 165, 196). La poesia è ascolto di voci fraterne, le sine corpore voces che, discorrendo delle vicende di uomini e cose, hanno lenito con un po' di oblio la percezione del nostro franare nel tempo (P 206). Il libro posa aperto sul leggio «come due bianche palme/ protese in una silenziosa offerta» (V 326). E l'invito è anche una provocazione a ri-dire in nuove parole quanto si è appreso, a cercare un proprio angulus fra tante possibili modulazioni; Traina riconosce la propria ispirazione non nel «torrente di Pindaro» né nel «puro ruscello di Callimaco», ma nella fontana malata di Palazzeschi «che singulta/ goccia a goccia la sua pena di vivere» (V 294). In ultima di copertina, le poesie latine scelgono di esporre una lirica sull'autunno come stagione prediletta di dolce, malinconiosa pace (P 50); quelle italiane, un epigramma che, polarizzato sull'amore per la letteratura, si fa emblematica sintesi della poetica di Traina, del suo sentirsi stretto, con tutta l'umanità, fra la morsa del decadimento e delle violenze e il tentativo di resistere, di ricavarsi uno spazio che dia senso e luce e forza alla vita (V 313): «Ancora un giorno il tempo ha rapinato/ l'oggi nel nulla./ Se me ne resta un'eco di parole,/ tanto mi basta a vivere il domani».


ALESSANDRO FO insegna Letteratura latina all'Università di Siena. Ha pubblicato alcune raccolte di poesie, tra cui: Otto febbraio (All'insegna del pesce d'oro, 1995); Giorni di scuola (Edimond, 2000); Piccole poesie per banconote (Polistampa, 2001); Corpuscolo (Einaudi, 2004); e Vecchi filmati (Manni, 2006).

 
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