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Una voce luminosa accende il buio
JOHN BANVILLE

PER PETTERSON, Fuori a rubar cavalli, trad. di Cristina Falcinella, Parma, Guanda, pp. 244, €16,00

In un grande saggio dal titolo Esperienza, Ralph Waldo Emerson scrive alcune cose forti, e ormai famose, sul delicato argomento del dolore. Nel gennaio del 1842 Emerson e la moglie Lidian avevano perso l'amatissimo figlio Waldo, morto di scarlattina a cinque anni. La mattina dopo il decesso, Emerson scrisse a vari amici esprimendo cosí la propria pena: «Il mio maschietto se n'è andato … Quel bambino meraviglioso … mi è sfuggito dalle braccia come un sogno. Mi adornava il mondo come una stella del mattino … La sua bellezza meravigliosa non è bastata a salvarlo … In vita mia non potrò mai più soffrire un'altra perdita del genere … Avrò mai il coraggio di amare di nuovo una creatura?».1

Non molto tempo dopo, tuttavia, in Esperienza, Emerson scriveva in tutt'altra vena: «Con la morte del figlio, poco più di due anni fa, mi sembrò di aver perduto un meraviglioso bene, non di più. Se domani fossi informato del fallimento dei miei principali debitori, la perdita dei beni di mia proprietà rappresenterebbe, certo, un danno molto grave per me, probabilmente per molti anni; ma mi lascerebbe pur sempre cosí come mi ha trovato, né migliore né peggiore. Lo stesso è accaduto con questa calamità; non riesce a toccarmi: qualcosa che io pensavo fosse una parte di me, che mai avrebbe potuto essermi strappata senza lacerare anche me stesso, né essermi data senza arricchire anche me stesso, si è separata da me, e non lascia cicatrice. Caducità».2

Per l'artista letterario il dolore è un tema produttivo e insieme periglioso. Una scena in cui venga descritta la morte di un personaggio e tutto ciò che a essa segue sembrerebbe garantire un coinvolgimento empatico del lettore, ma può scadere nel ridicolo in un balenar di lacrime. Come sempre, gli antichi sapevano il fatto loro – «Quanto a sofferenza non si sbagliavano mai, i Vecchi Maestri»,3 riconosceva Auden mestamente – e i greci avevano senz'altro tante parole per esprimere quella sofferenza: il pianto di Antigone per il fratello morto e insepolto bagna ancora la pagina, e il lamento di Didone echeggia dolente da secoli.

Tuttavia, più ci si avvicina alla nostra età moderna e disincantata, più diventa difficile descrivere grandi emozioni in maniera convincente, o lasciarsi convincere da ciò che ne viene scritto. I dolori del giovane Werther sembrano un'esagerazione assurda e la dipartita della piccola Nell di Dickens, davanti alla quale Oscar Wilde non era abbastanza insensibile da non ridere, ci suscita un inquietante senso di imbarazzo. Che sia sparito qualcosa di essenziale dalla nostra vita affettiva? Che gli orrori di cui la nostra epoca è stata testimone, anche se solo da una distanza televisiva, abbiano annientato in noi quella disposizione alla sofferenza riflessa che possedevano i nostri antenati? «Il solo insegnamento che credo d'aver ricavato dal dolore», confessa il realistico Emerson, «è di scoprire quanto esso sia meschino».4

Fuori a rubar cavalli, il primo romanzo di Per Petterson tradotto in italiano, è un libro doloroso ma non intriso di lacrime come il romanzo che l'ha preceduto, I kjølvannet (2000),5 del quale non è precisamente il seguito ma senz'altro un compagno. Petterson, ex bibliotecario ed ex libraio, è uno degli scrittori norvegesi di maggior spicco e Fuori a rubar cavalli ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio per la narrativa straniera dell'Independent di Londra e il premio letterario IMPAC, consegnato a Dublino, che con un ammontare di 100.000 euro è uno dei più ricchi del mondo. Non si tratta tuttavia di un vincitore scontato. Anzi, quello di Petterson è un romanzo sommesso e contemplativo, soffuso di toni autunnali e di una tristezza infinita nell'intento che si propone. Arde di una fiamma pallida, e benché forse non sia quel classico immediato come sostengono molti suoi ammiratori, è un'opera sottile, ricca nella trama e scevra di sentimentalismi, un'opera che Knut Hamsun non avrebbe disdegnato.

La storia si dipana secondo due diverse cronologie abilmente intrecciate l'una all'altra. Nel novembre del 1999, Trond Sandler ha sessantasette anni – anche se il tono che usa, forse per precisa volontà dell'autore, è quello di un uomo molto più anziano – e si è ritirato a vivere in «una piccola casa sulla riva di un lago, verso il confine orientale del paese». La casetta sorge in un bosco, vicino a un fiume che si getta in un lago, a poca distanza da un paesino, anche se con le imminenti nevicate invernali sarà difficile raggiungerlo. Sulle rive del fiume si trova una piccola abitazione in cui vive un altro eremita che, come il lettore verrà a sapere, si chiama Lars Haug. Trond ha un cane di nome Lyra che gli tiene compagnia; ascolta il BBC World Service, mette dischi di Billie Holiday su un vecchio grammofono, progetta di sostituire il pavimento e fare altre migliorie nella sua tana ed è, ci dice, contento: «Per tutta la vita ho desiderato vivere da solo in un posto come questo».

È indicativo della bravura di Petterson e del controllo che esercita sulla narrazione il fatto che, pur intuendo l'arrivo di grandi rivelazioni, il lettore non sia impaziente di sapere tutto subito e mostri fiducia nel racconto lasciando che esso sveli i propri segreti secondo i suoi tempi. Nelle pagine iniziali Trond incontra il suo solitario vicino di casa nel bosco, di notte. Lars Haug è un tipo sfortunato, ha un cane che si rifiuta di stare al piede e addirittura gli ringhia, e da ciò Lars prende spunto per raccontare che a diciott'anni era stato costretto dalla madre a sparare a un pastore tedesco che faceva preda di cervi. Anche se l'episodio compare nella narrazione in maniera piuttosto precipitosa, la scena, che si svolge a lume di torcia – sembra quasi di vederla, come fosse dipinta da un maldisposto Georges de La Tour –, suscita a ragion veduta una certa inquietudine e nella sua sobrietà delinea quell'intreccio di violenza, senso di colpa e irriducibile rimpianto che caratterizza il romanzo.

Quantunque il lettore non ne sia subito informato, Trond riconosce in Lars Haug un importante e tragico personaggio del suo lontano passato. L'incontro nel bosco sbriglia un fiume di ricordi risalenti all'estate del '48, ricordi che Trond non è affatto sicuro di gradire. Anche a quell'epoca Trond abitava in una casetta nel bosco, in compagnia del padre amato e idolatrato, ma solo per la durata di una vacanza estiva lontano dalla sua dimora di Oslo. Una mattina il suo amico Jon, che viveva poco distante con i fratelli gemelli Lars – sí, lo stesso Lars di cui sopra – e Odd di dieci anni, si presenta da lui e gli propone di andare «fuori a rubar cavalli». I cavalli in questione sono quelli di un agricoltore del posto di nome Barkald e i due ragazzi non vogliono rubarli per davvero ma solo prenderli in prestito per una folle cavalcata a pelo. Trond si accorge che Jon si comporta in maniera stranamente riservata – ma forse è solo l'anziano Trond che lo nota a posteriori – e in seguito si viene a sapere che proprio quella mattina, mentre avrebbe dovuto badare ai fratelli in assenza dei genitori, Jon aveva sbadatamente lasciato il fucile da caccia in un corridoio di casa sua, i gemelli lo avevano trovato e uno dei due, Lars, aveva sparato al fratello senza volere, uccidendolo sul colpo.

Questo resoconto della tragedia è appena un po' meno scarno di quello che ci dà Petterson nel libro. Nella sua prosa disadorna, ma sommessamente poetica e incisiva, si ritrovano echi non solo di Hamsun e Jens Peter Jacobsen, ma anche dei taciturni protagonisti di Hemingway, del narratore silenziosamente sicuro di sé de Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig e, data l'ambientazione pastorale, di Thoreau e Robert Frost: «Sapeva di resina la mia pelle, di notte, sdraiato nel letto. Mi addormentavo con quell'odore e con quell'odore mi svegliavo, mi accompagnava tutto il giorno. Io ero il bosco».

In alcuni punti il testo richiama alla mente anche altri romanzi che hanno per protagonisti bambini o adolescenti, come L'isola di Arturo di Elsa Morante, Il grande Meaulnes di Alain-Fournier e perfino Il giovane Holden. Ciò nondimeno, più che del passato e dell'infanzia, Fuori a rubar cavalli parla degli effetti duraturi che il passato ha sul presente, e dell'età e del processo dell'invecchiamento. Ma il tema centrale è soprattutto il lutto e le conseguenze di un lutto tragico sull'animo di chi sopravvive, che si dibatte in preda al dolore, alla rabbia e al senso di colpa. Nonostante tutta la diffidenza e il ritegno della sua voce, Petterson è un cantore di trenodie, e Fuori a rubar cavalli e il suo predecessore I kjølvannet sono un lamento prolungato per la morte di persone care.

È sempre rischioso ricondurre episodi della vita dell'autore a trame e temi dei suoi romanzi; in questo caso, però, non si può non tenere conto del fatto che nel '90 Petterson perse alcuni familiari nel disastro della Scandinavian Star, quando sul traghetto partito da Oslo e diretto a Frederikshavn, in Danimarca, scoppiarono tre incendi che causarono la morte di 159 passeggeri. I kjølvannet è un resoconto quasi non mediato degli strascichi che quella spaventosa sciagura ha avuto sulla vita di un uomo, il quarantatreenne Arvid Jansen, scrittore ed ex commesso di libreria, che sul traghetto in fiamme perde i genitori e due fratelli minori.

Benché la narrazione abbia inizio sei anni dopo il disastro, Jansen è ancora in uno stato di prostrazione apparentemente incurabile: una mattina, ubriaco fradicio di gin e non lavato, ha un improvviso accesso di violenza e prende a calci la porta chiusa a chiave della libreria in cui anni prima lavorava come commesso. Poi si accorge che la vicina edicola dove comprava sempre i giornali, il tabacco e ogni tanto delle barrette di Kvikk Lunsj è ancora in attività, e ripensa a quando da ragazzo si preparava con i fratelli a una gita sugli sci con «due arance per uno e magari a volte un pacchetto di Kvikk Lunsj se ci andava bene». Il suo proiettore interno comincia subito a ronzare: «Mi ricordo di un ufficio in Drammensvei con una croce rossa sulla porta, un vigile del fuoco sta mostrando un video girato all'interno della nave con un paesaggio di corpi seminudi, supini: IL CORRIDOIO DELLA MORTE, aveva titolato in prima pagina Verdens Gang, quel video ce l'avevo negli occhi; pelle, vedo della pelle, opaca e vellutata alla luce tremula di una lampada che si muove avanzando, ombre agitate fra gomiti e fianchi, scapole e colli, un mare di morbidezza ridotta al silenzio in cui non si muove nulla se non la luce che porta vita a ciò che non vive».

I kjølvannet è un'opera meno sottile che tuttavia, con la sua crudezza apparentemente spontanea, dà una soddisfazione più immediata che non Fuori a rubar cavalli. La storia è quella di un animo ferito che muove i primi passi incerti verso la guarigione. Il fatto che anche lui avrebbe dovuto trovarsi sullo sventurato traghetto, se non avesse declinato l'invito ad accompagnare la famiglia, non è l'ultimo dei tormenti che angosciano Arvid Jansen. L'ultimo parente stretto che gli è rimasto, il fratello architetto David, da poco divorziato, adesso ha tentato il suicidio, ma più che compassione il suo gesto suscita in Arvid un senso di rabbia. Sul finire del romanzo i due si prendono a pugni e alla fine di questa sfida catartica, di una comicità noir, brindano con un whisky alla salute l'uno dell'altro riconoscendo quasi allegramente di aver raggiunto «il fondo».

Arvid ha già incontrato qualche messaggero di fievoli speranze. A esempio Naim Hajo, il profugo curdo del piano di sopra, al quale Arvid può raccontare la storia del difficile rapporto che aveva con suo padre da vivo e che prosegue tuttora dopo la sua tragica morte, anche se Naim sa solo tre parole di norvegese. Un'altra vicina di casa, la signora Grinde, che è una ragazza madre, gli offre un soccorso più diretto e intimo che, in maniera lievemente trita, sembra perfino preludere a una felicità futura.

Arvid può contare anche sulla scrittura. Poco dopo l'inizio del romanzo, quando finalmente rientra a casa dopo l'assalto ubriaco dato di mattina presto alla libreria, lo troviamo alla scrivania davanti al suo «vecchio Mac», mentre scrive parola per parola il paragrafo d'apertura di quello che diventerà Fuori a rubar cavalli. «Sto per scrivermi in un possibile futuro», ci informa, e uno dei tropi sepolti nelle profondità di questi due romanzi è proprio la capacità di redenzione o quanto meno di ricostruzione della parola scritta e di tutto ciò che essa riesce a evocare: la speranza, balsamo per un animo ferito, e persino un futuro.

Se il futuro, felice o meno, di Arvid Jansen sembra comunque destinato a essere irto di problemi, quello di Trond Sander in Fuori a rubar cavalli è di gran lunga più incerto, sempre che non si tenga conto della certezza di una morte che, come egli stesso intuisce, non è tanto lontana. Anche Trond, come Arvid, ha sofferto delle perdite dolorose. Tre anni prima la moglie è rimasta uccisa in un incidente stradale cui Trond ha avuto la fortuna di scampare, se di fortuna si può parlare, e nello stesso mese l'amata sorella è morta di cancro. Il romanzo non si sofferma sulle circostanze di questi due decessi, che non sembra abbiano avuto effetti oltremodo traumatici; il tessuto cicatriziale cresciuto sulle ferite di Trond è spesso e duro, anche se nell'intimo il dolore permane. A differenza di Arvid Jansen, Trond, intenzionalmente o meno, si è lasciato indurire anche se solo in parte dal proprio istinto di autoconservazione spirituale, fortissimo in ognuno di noi, per difendersi dalle razzie del dolore e del lutto.

Da un certo punto di vista Fuori a rubar cavalli rappresenta un'interrogazione della morte: non la morte intesa come terribile Thanatos, ma come evento banale e inevitabile. Secondo Wittgenstein la morte non è un'esperienza della vita, ma a quanto pare Petterson non è d'accordo. In un bel brano, il giovane Trond, rimuginando sulla tragedia in cui è rimasto coinvolto Jon, si chiede che effetto faccia morire; una persona, riflette, deve sentirsi «come se avess[e] un uovo in mano [e] lo lasciass[e] andare». «C'era una piccola fessura lí, come una porta appena accostata, e io mi ci spinsi contro, perché volevo entrare, e in quella fessura c'era una luce dorata che dal sole si posava sulle mie palpebre, e di colpo ci scivolai dentro e per un istante posso giurare di esserci stato e la cosa non mi spaventò affatto, mi rese solo triste e stupito per tutto il silenzio che ci avevo trovato.»

Nonostante la brevità e il tono misurato del romanzo, qui c'è parecchia trama. Gli accenni iniziali e fugaci sulla guerra e sull'occupazione tedesca non mettono in guardia il lettore sull'entità delle conseguenze che il violento destino della Norvegia nei primi anni Quaranta avrà per la vita di Trond e di altri personaggi. Anche l'espressione che dà il titolo al romanzo, «fuori a rubar cavalli», rivestirà un significato d'importanza cardinale in quanto parola d'ordine. Il lettore viene a sapere che il padre di Trond e la madre di Jon erano coinvolti in prima persona nella Resistenza come staffette e, in una tragica circostanza, come corrieri di un carico umano in viaggio tra la Norvegia e la Svezia. Il partigiano che tentavano di portare oltreconfine via mare viene ucciso perché il padre di Jon, spinto dalla gelosia, tradisce i due attivisti, i quali riescono per il rotto della cuffia a rifugiarsi in territorio neutrale. Tre anni dopo, nell'estate rievocata da Trond durante la quale Lars uccide accidentalmente il fratello gemello, il padre di Trond e la madre di Jon si rincontrano per compiere una seconda e ultima fuga verso quella che considerano la libertà.

Eppure, nessuna di queste complicazioni romanzesche ha il peso drammatico dei due eventi più fatidici e apparentemente meno tragici di tutto il libro. Il primo è la visita inattesa, e inquietante, che Trond riceve nella sua casetta in mezzo alla foresta da parte della figlia Ellen, ormai adulta. Quando è andato a vivere lí, fuggendo dalla sua vecchia vita, Trond non ha rivelato a nessuno la sua meta, cosicché Ellen è stata costretta a chiamare «tutti i comuni nel raggio di quindici chilometri e più per scoprire dove vivev[a]». La visita dura qualche ora appena, e in quest'arco di tempo non succede granché: Ellen ammira la cagna Lyra e la porta a fare una passeggiata; consiglia al padre di procurarsi un telefono, cosa che lui promette di fare; Trond rovescia del caffè sulla tovaglia; i due parlano a tratti. Ma, quando all'imbrunire Ellen se ne va, la casetta in mezzo al bosco non è più l'asilo e il rifugio che era prima del suo arrivo: «Io salgo sul gradino di fuori, spengo la luce del cortile e percorro il corridoio dell'ingresso verso la cucina. Lyra mi sta alle calcagna, ma perfino con lei dietro mi sembra un po' vuoto qua dentro. Guardo fuori in cortile, ma non vedo nient'altro che la mia immagine riflessa sul vetro scuro».

La seconda, straordinaria epifania – perché queste pagine altro non sono – ha luogo allorché il giovane Trond accompagna la madre a Karlstad, in Svezia. Il padre, fuggito di casa, ha scritto inaspettatamente alla moglie per dirle che non tornerà e che in una banca di quella città è depositato del denaro destinato a lui, che la moglie dovrebbe andare a prendere. La lettera ha un tono risolutamente pratico e non contiene un saluto particolare per Trond: «Non so. Sinceramente mi sembrava di essermelo meritato». Per affrontare il viaggio, la madre è costretta a chiedere un prestito a suo fratello. E quando lei e Trond arrivano in Svezia lo smarrimento è istantaneo: «Parlavano in un altro modo qui, ce ne accorgemmo immediatamente, e non erano soltanto le parole, anche l'intonazione suonava straniera». Madre e figlio girano per le vie della città alla ricerca della banca in cui è depositato il denaro e, poiché la madre è troppo intimidita dall'ambiente sconosciuto, tocca a Trond chiedere indicazioni. Tuttavia, la prima persona che ferma non lo capisce e Trond, travolto dalla rabbia, dall'amarezza e dal risentimento, minaccia di dargli un pugno sulla bocca.

Quando alla fine arrivano per caso alla banca, i due scoprono che sul conto ci sono solo 150 corone, una somma irrisoria che oltretutto non si può neanche portare in Norvegia ma va spesa in Svezia. La madre decide allora che con quei soldi Trond avrà il suo primo abito da adulto e, detto fatto, i due entrano in un negozio e lo comprano. L'episodio si presenta come la descrizione di un rito iniziatico di una saga nordica contemporanea in cui la madre conduce il figlio nel magico regno dell'età virile. Con l'abito nuovo indosso «sembravo una persona completamente diversa ... Non sembravo affatto un ragazzo ... Quando uscimmo sul marciapiede e scendemmo verso la stazione, in cerca di un caffè dove poter mangiare qualcosa, mia madre mi prese a braccetto e proseguimmo cosí, a braccetto come una coppia di sposi, agili, con la giusta differenza di altezza, e quel giorno i suoi tacchi riecheggiavano sulle pareti delle case da entrambi i lati della strada. Era come se la legge di gravità fosse stata parzialmente sospesa. Era quasi come ballare, pensai, benché non avessi mai ballato in tutta la mia vita».

Preferiremmo non chiudere cavillando, ma nel romanzo ci sono alcune note stranamente false. È risaputo che i romanzi incentrati su eventi importanti e rivoluzionari accaduti nel lontano passato sono soggetti a scadere nel ridicolo e nei cliché, e a tratti Petterson perde la concentrazione. Il lettore faticherà a soffocare un lieve gemito quando, dopo una scena molto drammatica meravigliosamente scritta, il narratore annuncia: «D'ora in avanti niente sarà più come prima, pensai». È mai successo nella storia del mondo che qualcuno abbia veramente pensato una cosa del genere in un momento cosí? Perché è indubbio che tutti noi attraversiamo gli incroci più significativi della vita con giuliva inconsapevolezza.

Di tanto in tanto, inoltre, Petterson commette il grave errore di confessare l'imbarazzo del narrastorie davanti ai volgari artifici ai quali deve ricorrere. Riflettendo sullo strano fatto che lui e Lars Haug siano finiti per caso a vivere in due casette vicine in mezzo alla foresta, Trond dichiara: «Questo tipo di coincidenze risultano forzate in letteratura, perlomeno nei romanzi moderni, perciò faccio fatica a crederci»; dopodiché continua ostinatamente per un'altra mezza pagina a impantanarsi nella stessa situazione senza via d'uscita.

Un altro piccolo, infelice cedimento arriva dopo la scena in cui il giovanissimo Trond si separa dal padre per quella che, come egli intuisce, sarà l'ultima volta. Trond descrive se stesso mentre interpreta meccanicamente i momenti di una scena d'addio: «Come se fossi stato scrupolosamente istruito dal classico film in cui la scena centrale è l'addio fatidico, dopo il quale la vita del protagonista si trasforma per sempre». Anche quest'apologia va avanti per una mezza pagina e più.

Ma questi sono solo piccoli difetti di un'opera finemente elaborata e rifinita con amore. Nonostante il tema doloroso, quella di Per Petterson è una voce luminosa che rischiara il buio dei suoi luoghi. Alla fine del romanzo Trond, ormai vecchio, ripensa con risolutezza stoica – cosa che Emerson avrebbe senz'altro approvato – al giorno in cui, col suo vestito nuovo, aveva camminato a braccetto della mamma in quella via di Karlstad: «Il mio abito nuovo mi cadeva addosso leggero e mi seguiva con naturalezza a ogni passo. Il vento proveniente dal fiume arrivava ancora ghiacciato tra le case e mi sentivo la mano gonfia e dolorante nel punto in cui le unghie erano sprofondate nella carne quando l'avevo stretta cosí forte, eppure in quel momento mi sentivo benissimo: il vestito era bello, la città era bella lungo la strada di ciottoli, e poi in fondo siamo noi a decidere quand'è che fa male».

(Traduzione di Claudia Valeria Letizia)

1 . R.L. Rusk (a cura di), The Letters of Ralph Waldo Emerson, New York, Columbia University Press, 1939, v. 3, p. 7.

2 . R.W. Emerson, Esperienza, in Natura e altri saggi, Milano, Rizzoli, 1990, p. 197.

3 . W.H. Auden, Musée des Beaux Arts, in Poesie, a cura di C. Izzo, Parma, Guanda, 1952, p. 3.

4 . R.W. Emerson, Op. cit., p. 197.

5 . P. Petterson, I kjølvannet, Oslo, Coppelens bokklubb, 2000. Il libro è uscito in America con il titolo In the Wake (New York, Picador, 2002).


JOHN BANVILLE , scrittore e giornalista irlandese, collabora a The Irish Times di Dublino. Tra i suoi romanzi, usciti in traduzione italiana per i tipi di Guanda, citiamo: La spiegazione dei fatti (1991); La notte di Keplero (1993); Atena (1996); L'intoccabile (1998); Eclissi (2002); Il mare (2006); Dove è sempre notte (2007); Un favore personale (2008); e Isola con fantasmi (2009).

 
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